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SE SEI UN GENITORE

COSA PUO’ FARE LA FAMIGLIA

COSA PUO’ FARE LA FAMIGLIA - ADAM

COSA PUO’ FARE LA FAMIGLIA IN PRESENZA DI UN DISTURBO DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

I DCA sono patologie caratterizzate da una alterazione del rapporto che una persona ha con il cibo e con il proprio corpo e dalle conseguenze di questa alterazione.
La sofferenza psicologica che sta dietro a questi disturbi è spesso molto intensa, anche se a volte negata o poco visibile, e non va mai dimenticata o trascurata.
E' necessario invece aver sempre presente che i problemi psicologici nei DCA sono importantissimi e vanno presi in considerazione e trattati quanto quelli "organici" della malattia.

Spesso quando in una famiglia un figlio ha qualche problema psicologico, inizia la ricerca del perché.

Il fatto è che non è affatto facile capire le cause del disturbo, che dipende da moltissimi fattori, solo alcuni collegati al contesto familiare. Anche se si capissero le cause e si eliminassero, non è detto che il disturbo si risolverebbe: purtroppo il DCA si automantiene e si autoaggrava, è un circolo vizioso da cui è difficile uscire.

Non chiedetevi "di chi è la colpa?", ma "qual è la cosa migliore da fare adesso?".

Non vergognatevi né di vostro figlio né di voi stessi.

Anche quando fosse vostro figlio a rinfacciarvi le colpe, non cercate giustificazioni, né date la colpa ad altri, ma fategli capire che questi meccanismi non aiutano nessuno e che è più importante guardare avanti. E' importante che nemmeno voi colpevolizziate i vostri figli: i DCA non sono guaribili con la sola forza di volontà. Non serve a nessuno rinfacciare vecchi o più recenti errori che hanno commesso.

L'unica cosa che si può chiedere è quella di provare ad affrontare un trattamento.

Non serve mettersi "a completa disposizione": "ti preparo tutto quello che vuoi purché mangi". Questo non farebbe altro che innescare atteggiamenti difensivi e oppositivi: mangiare potrebbe allora proprio voler "darla vinta ai genitori" e questo, nel rapporto conflittuale adolescente-genitore, sarebbe troppo difficile da accettare.

In questo tipo di problema bisogna imparare a mangiare per se stessi e non per far piacere a genitori e medici o operatori. Per questo non servono le maniere forti, né da parte dei genitori, né da parte dei terapeuti.

Cercate, a casa, di parlare anche di altre cose: evitate atmosfere pesanti durante i pasti; ascoltate le richieste che vi vengono fatte, purché non siano fatte solo nell'intenzione di esercitare il controllo su di voi.
Per esempio si possono accogliere richieste del tipo "non voglio il piatto pieno, perché mi mette l'ansia", ma non del tipo "quando mangio non dovete entrare in cucina", oppure "dovete mangiare tutti i dolci che preparo".

Non fate ruotare tutta la vita familiare attorno alla persona con il DCA.

Ovviamente, non esistono regole ferree e ogni genitore deve attuare un atteggiamento che più si adatti al suo carattere e alla sua situazione: recitare una parte non serve se poi si è così preoccupati da non riuscire a nasconderlo.

L'atteggiamento più efficace è ascoltare, essere equilibrati, comprensivi e rispettosi nei confronti delle difficoltà e paure, ma fermi.

Potete dire qualcosa del genere: "non so da cosa dipende il tuo problema, mi spiace però che tu stia male. Proverò a capire, se ci riesco, ma di sicuro non posso permettere che tu ti faccia del male".

Può essere che vostro figlio neghi la malattia, i suoi comportamenti malati, minimizzi la situazione, mostrandosi poco consapevole della condizione. E' importante, però, non temporeggiare nell'affrontare un trattamento: c'è il rischio di rendere, poi, più lunga e difficile la cura. Non mettete mai in discussione la necessità di un trattamento appropriato.
 
Cosa possono fare i genitori?

•    possono incoraggiare l'inizio e il proseguimento della cura;

•    possono limitare l'impatto distruttivo che il DCA può avere sul nucleo familiare;

•    ricordare che, perché sia possibile la guarigione, è importante, prima o poi, che la figlia capisca che questa è una scelta che spetta a lei;

•    che tengano a mente che, per cambiare, bisogna che la figlia sia consapevole del problema, e convinta di avere delle risorse interne che la aiutino, cose non sempre facili;

•    che una persona che non ha consapevolezza e motivazione, oltre a far molta fatica ad essere aiutata, facilmente abbandonerà il trattamento;

•    che le persone con DCA spesso sono ambivalenti: a momenti vogliono guarire, a momenti no (questo è dovuto alla funzione che ha la malattia);
•    non assumere un ruolo autoritario, non ordinare o spaventare, non fare prediche morali: questo potrebbe invogliare la ragazza a fare esattamente il contrario;

•    aiutare la ragazza a imparare a sentire come positivi tutti i piccoli passi che riesce a fare, riconoscendoli e valorizzandoli (logica dei piccoli passi);


•    Ricordate che, se la figlia con DCA mente, lo fa soprattutto verso se stessa.

E il peso?

Nell'anoressia nervosa: è importante capire quanto peso è stato perso, ma anche con che velocità.
Quando una persona è al di sotto di un certo peso, è molto difficile che possa essere curata efficacemente, perché vengono compromesse le capacità di pensiero, di concentrazione e di collaborazione.

Recuperare peso è un aspetto cruciale del percorso di guarigione.

Per guarire, bisogna accettare un "peso naturale", che corrisponde a quel peso che si ha senza attuare restrizioni alimentari e che non è mai al di sotto di un BMI di 18,5.

Per molte persone affette da DCA, il peso naturale è quello che avevano prima di ammalarsi.
Aumentare di peso è molto difficile da accettare. La paura della ragazza è quella di ingrassare a dismisura: rassicuratela, all'occorrenza, del fatto che, mangiando in modo abbastanza regolare, non c'è nessun ragionevole motivo per cui il peso debba aumentare all'infinito.

Nella bulimia: molto spesso le persone con questo problema hanno un ideale "malato" di magrezza. Sono insoddisfatte del loro peso, vorrebbero dimagrire, anche se non lo dichiarano.
La paura di ingrassare e il desiderio di un peso inferiore alla normalità porta queste persone ad uscire a fatica dal circolo abbuffata-vomito.

Anche se la ragazza è in sovrappeso non deve assolutamente seguire una dieta. La figlia andrà sostenuta, all'occorrenza, nel pensare che un comportamento alimentare normale fa ottenere e mantiene un peso adeguato e che quello che fa veramente ingrassare sono le abbuffate. Va eventualmente anche rimandata l'inefficacia e la pericolosità dei metodi di compenso (con i quali si eliminano solo poche delle calorie introdotte). Può essere utile ricordare che le variazioni di peso che ci sono in una settimana sono solamente liquidi e non grasso.




Consigli generali su come gestire il momento alimentare:

Chi soffre di un DCA ha 2 tipi di problemi: non riesce a capire quando ha fame ed è sazio; non riesce a mangiare normalmente perché il suo comportamento alimentare è condizionato da molti pensieri malati e distorti.

Usate, all'occorrenza, la tecnica della riattribuzione, che consiste nell'associare le difficoltà digestive, la depressione, gli sbalzi d'umore, la paura di perdere il controllo, l'ossessione per il cibo alla dieta e/o al sottopeso.

Disincentivare tutti quei comportamenti disturbati o rituali che vostra figlia adotta durante il pasto; potete rilevare quei 2-3 comportamenti disturbati e segnalarli a vostro figlio non più di 2 volte, per non innescare atteggiamenti oppositivi; davanti ad insofferenza ed ostilità, cercate di non farvi prendere da emozioni negative; non contrattate sulla quantità di cibo; se vostra figlia rifiuta di mangiare, evitate l'aggressività e invitatela a non desistere contro la malattia.

Cercate di assumere un atteggiamento positivo; chiedete a vostra figlia come potete aiutarla; non fatele evitare le situazioni sociali; non chiedetele di mangiare o non abbuffarsi per farvi felice; non mettetela sul piano della forza di volontà; non controllate ciò che mangia, a meno che non venga chiesto dal terapeuta; se mangiate tutti assieme, invitate la persona con DCA a mangiare assieme a voi; evitate atteggiamenti colpevolizzanti; non fate del pasto un momento di scontro; non chiedetele un resoconto di episodi di abbuffate o vomito; ricordate sempre che per guarire da un DCA ci vuole molto tempo e molta gradualità.

Ricordate che siete umani e fallibili, non potete leggere nella mente di vostro figlio, ma potete supportarlo efficacemente e giornalmente nella lotta contro la sua malattia.

IL RUOLO DELLA FAMIGLIA

 Sono tante le riflessioni e le domande che sorgono e che spesso vengono rivolte ai/alle professionisti/e che si occupano della cura dei Disturbi del Comportamento Alimentare. Quesiti a cui i genitori non riescono a trovare risposta.

Alcuni esempi sono:

-      Da cosa posso accorgermi che mia figlia ha un disturbo alimentare?

-      È sempre la famiglia a sbagliare?

-      Non riesco a capire perché non vuole accettare il mio aiuto.

-      Noi genitori discutiamo perché non siamo d’accordo su come comportarci.

-      Ho letto su internet che non bisogna insistere affinché mangi, ma è giusto assecondarla su cosa e quando mangiare?

-      Può essere utile tenere chiuso il bagno o la cucina?

-      Ha delle giornate “no” e delle giornate “sì”.

-      Ci sono momenti in cui ha delle crisi di pianto e aggressività fortissime, come devo comportarmi?

-      Si isola, non mi risponde, non mi parla, la vedo molto triste. Non era così una volta.

-      Abbiamo sempre avuto un bel rapporto, perché adesso non mi ascolta più?

-      È vero che è un disturbo lungo da curare?

-      La famiglia può essere sostenuta nel percorso di guarigione?

Ricordando che la Persona che soffre di Disturbi del Comportamento Alimentare non è la malattia, ma ha una malattia, la particolarità di ogni individuo impedisce di rispondere a queste domande in maniera generalizzata. Lo spaesamento e la paura che si prova nello stare vicino a queste realtà obbliga però a ragionare sulle questioni riportate precedentemente.

Non potranno essere date dunque delle risposte esaustive che siano risoluzione di tale complessa sofferenza ma le riflessioni offerte vorrebbero essere degli stimoli, dei punti di partenza che possono condurre, chiunque ne abbia la necessità, in particolare i genitori, verso un percorso di sostegno.

 

IL SINTOMO: LA METAFORA DEL BASTONE

Cerchiamo di capire prima di tutto con che occhi provare a guardare la malattia.

Il sintomo alimentare deve essere considerato come una sorta di bastone, una stampella che la persona utilizza come un appoggio, un appoggio alle fatiche, alle fragilità, alla sofferenza. Attraverso il sintomo, seppur in maniera patologica, la persona riesce ad affrontare il difficile momento evolutivo.

È importante sapere che spesso e soprattutto nei/lle giovani la sintomatologia alimentare manifesta una sofferenza più profonda. Ecco perché risulta fondamentale per i genitori provare a non concentrarsi sul sintomo e sul disturbo credendo di doverlo eliminare subito ma, anche se con grandi difficoltà, bisognerebbe cercare di andare oltre quello che si vede, guardare oltre il corpo sofferente. Ciò non vuol dire sorvolare o trascurare la gravità dello stato in cui si trova il/la figlio/a ma trovare la forza di chiedere aiuto e affidarsi a persone competenti che possano sostenere la sofferenza e individuare un percorso di cura e sostegno adatto per famiglia e persona ammalata.

La famiglia inoltre dovrebbe raggiungere la consapevolezza della durata della cura e del sostegno che richiede questa tipologia di disturbo: bisogna essere coscienti che si tratta un percorso che richiede tempo e pazienza, durante il quale la persona sofferente dovrà trovare le risorse, le strategie, la sicurezza dentro di sé per proseguire la propria strada con le proprie gambe e poter buttare via il “bastone”, quando non ne avrà più bisogno.

Oltre alla coscienza del TEMPO che richiede la guarigione di queste patologie, la differenza possono farla i/le protagonisti/e che intervengono in sostegno della persona coinvolta. Il contributo genitoriale dunque è davvero una preziosa risorsa.

 

SOSTENERE SENZA COLLUDERE

Un percorso di affiancamento a quello del/la figlio/a, nel quale vengono fornite delle informazioni sulla sintomatologia alimentare e degli strumenti per capire e gestire alcune dinamiche e atteggiamenti che sembrano incomprensibili, risulta un sostegno temporaneo fondamentale per i genitori e allo stesso tempo, indirettamente, uno strumento terapeutico stabile per il/la giovane.

Successivamente a queste fasi, ove si ritenesse necessario, si propone alla famiglia di fare un passo avanti e lavorare sull’individuazione di possibili fattori che hanno portato allo sviluppo di particolari dinamiche familiari coincidenti con l’insorgere del sintomo del/la figlio/a.

Spesso quindi ci si trova ad avere la necessità e la richiesta da parte degli stessi genitori di creare uno spazio per un percorso terapeutico di coppia o individuale. Questa messa in discussione rappresenta per la persona con un disturbo alimentare la prova che le persone a lui/lei vicine si stanno mettendo in gioco sia per il suo bene e che per loro stesse. Come è stato descritto precedentemente il sintomo spesso risponde a delle esigenze auto conservative del sistema famiglia nella sua globalità ed ha quindi una funzione adattiva. Tale manifestazione acquista dunque una doppia valenza: da un lato si sviluppa per comunicare un disagio all’interno del sistema familiare che necessita di cambiamento, dall’altro mantiene l’equilibrio del sistema.

In questo contesto, l’intervento con il nucleo familiare è un’occasione privilegiata per mettere in azione le proprie riaorse: se cambiano le modalità di relazione si modifica anche il comportamento individuale.

Un atteggiamento di apertura, di ascolto, di fiducia è già di per sé terapeutico, al contrario una disposizione verso la malattia giudicante e svalutante e può diventare un fattore di mantenimento o di peggioramento della patologia.

Il primo passo da fare per sostenere chi soffre di questi disturbi è informarsi e quindi farsi aiutare da specialisti/e, cercando di allontanare lo stimolo di intervenire impulsivamente generando pregiudizi e generalizzazioni.

La tempestività, poi, è un altro fattore decisivo per l’efficacia della cura: riconoscere il disturbo, informarsi e riuscire a selezionare un team professionale che possa sostenere un progetto di cura valido riduce la cronicizzazione della patologia, che già di per sè tende ad essere occultata per diverso tempo. Spesso capita di incontrare genitori o familiari che riferiscono che nonostante il breve tempo intercorso tra l’esordio e l’avvio delle cure, affidandosi a non esperti, hanno aggravato la situazione.

La professionalità è un altro elemento fondamentale nella cura, sembra banale ribadirlo ma, in assenza di una competenza specifica sulle sintomatologie alimentari, il rischio è quello di creare nelle persone già confuse e sofferenti, ulteriori pensieri di caos e sfiducia. Inoltre è molto probabile che, in risposta a ciò, i/le pazienti rinforzino i meccanismi di difesa e la sintomatologia alimentare facilitando la cronicizzazione del disturbo.

È importante curare tali patologie attraverso un approccio multidisciplinare che preveda la collaborazione integrata di varie figure terapeutiche (psichiatra, psicoterapeuta, nutrizionista, dietista) con l’obiettivo di un programma personalizzato adattato alle specifiche esigenze della persona.

 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

SCOPPETTA Marta, Perchè mia figlia non mangia più?, Roma, Castelvecchi Editore, 2017.

DALLA RAGIONE Laura, GIOMBINI Lucia, Solitudini imperfette, Perugia, 2014.